Consideriamo ora un testo reale, come quello della Introduzione alla Prospettiva.
Il codice, in questo caso, si presenta come si vede qui sotto ed è evidente che è assai scomodo, per non dire impossibile, lavorare su un documento che dispone sulla stessa pagina le istruzioni necessarie alla composizione tipografica e il testo. Questo problema si risolve facilmente separando le due parti: la declaratoria in un file, che potremo chiamare, per esempio, main.tex e il testo in un secondo file, per esempio introduzione.tex.
In pratica, si procede come segue:
– Si crea un nuovo file con il menu principale di TeXstudio, File, Nuovo, che apre una pagina bianca;
– si copia su questa pagina il testo della Introduzione e si salva con il nome Introduzione.tex;
– nella declaratoria si cancella il testo da \chapter(Introduzione) fino all’ultima parola, in modo che restino le sole due istruzion \begin{document} e end{document};
– tra queste due istruzioni si aggiunge il comando \include{Introduzione} che ordina al compilatore di leggere il testo dal file Introduzione.tex per inserirlo ove indicato.
La declaratoria ora si presenta, come nella pagina successiva, così:
%%%% DECLARATORIA o PREAMBOLO %%%%
\documentclass{book}
%%%% TESTO %%%%
\begin{document}
\chapter{Introduzione}
Se state leggendo queste righe, vuol dire che avete già qualche motivo per capire la prospettiva. Forse siete artisti e volete usarla per creare, su una parete, l'illusione di uno spazio profondo; ma potreste essere architetti e usarla per abbozzare l'idea di un ambiente interno; o forse siete storici dell'arte e volete ritrovare la struttura geometrica di una quadratura, le regole che la giustificano, ma soprattutto le deroghe accettate dal pittore e le loro ragioni.
Queste sono tutte motivazioni applicative, nel senso che il vostro impegno nel capire la prospettiva chiede una ricaduta d'ordine pratico.
Ma è lecito immaginare che possano esserci anche motivazioni di natura culturale, come pura e semplice curiosità, e di natura scientifica, come mezzo per studiare la percezione umana dello spazio o il suo controllo, con uno strumento matematico che è capace di misurarlo e riprodurlo.
Scrivere di prospettiva non è una sinecura, bisogna attendere al ragionamento, non essere troppo prolissi, né troppo sintetici, e disegnare, oltre a scrivere. Perciò è bene ricordare le suddette motivazioni, soprattutto oggi, in un mondo che è dominato dall'immagine di sintesi, quella generata al computer, per intenderci, con procedure e regole diverse da quelle antiche.
Inoltre, scrivere di prospettiva comporta alcune scelte preliminari impegnative.
La prima di queste scelte riguarda il metodo e cioè se si debba perseguire soprattutto il risultato finale, ovvero l'immagine che la prospettiva è in grado di generare, oppure si debba privilegiare il processo che porta lo spazio a trasformarsi nell'immagine, perché è in questo processo, soprattutto, il fascino della prospettiva.
Pensiamo, per un momento, al punto di fuga. Se avete aperto questo libro, molto probabilmente sapete già di che si tratta: è il punto nel quale convergono le immagini di rette che, nello spazio, sono parallele; come i binari del treno, che nella realtà procedono senza mai incontrarsi e nella visione sembrano, invece, fondersi in un punto remoto.
Ebbene, la prospettiva ci dimostra, in modo lampante, che quel punto è l'immagine di un punto infinitamente lontano e che, perciò, non è vero che rette parallele non hanno alcun punto in comune, al contrario hanno in comune un punto speciale, che è la loro direzione e che l'immagine prospettica rende visibile ed evidente.
Ora, se si adotta il metodo che segue la via più breve e diretta per giungere al risultato si sacrifica il punto di fuga o, quanto meno, la sua giustificazione teorica, che è così suggestiva e bella come può essere bella l'idea astratta dell'infinito.
Se, invece, si segue il processo che trasforma lo spazio tridimensionale, allora si illuminano molti e sorprendenti aspetti dello spazio prospettico, come la sua forma sferica, che ha centro nei nostri occhi e un raggio indefinitamente grande, capace di contrarsi nella illusione prospettica e nuovamente espandersi nella esperienza fisica reale.
Il primo modo di procedere, diretto al risultato immediato, assomiglia a una macchina fotografica, che possiamo usare anche senza sapere nulla di ottica, né di meccanica.
Il secondo è un'esperienza intellettuale, che coinvolge le capacità immaginative della nostra mente: quel vedere anche senza guardare che è così familiare a chi progetta, inventa o crea qualcosa che prima nel mondo reale non esisteva.
Qual è, dunque, il modo migliore di avvicinarsi alla prospettiva, anche senza che l'uno dei due modi escluda l'altro? Si tratta, in verità, di un dilemma antico che è già ben presente nel primo trattato illustrato che sia stato scritto sull'argomento: il De Prospectiva Pingendi di Piero della Francesca\index{Piero della Francesca}. Piero comincia con il processo intellettuale, che ritiene più adatto a capire le ragioni profonde della prospettiva e il suo modo di operare, per poi illustrare il secondo procedimento, più facile quando si tratta di gestire forme complesse.
Il primo modo , a sinistra) consiste nel generare uno spazio deformato secondo le leggi della degradazione prospettica e nel costruire, all'interno di quello spazio \textit{illusorio}, gli oggetti che abitano il mondo reale, come, per esempio, un edificio o una vera da pozzo.
Il secondo modo, invece , a destra) costruisce gli oggetti nello spazio omogeneo e isotropo che, per semplicità, possiamo definire reale e li trasforma nella loro immagine prospettica per mezzo di ripetitive operazioni di intersezione tra i raggi visivi e il piano che supporta il disegno.
Noi seguiremo questo medesimo ordine, confidando nella forza della tradizione.
C'è poi una seconda scelta difficile, che è quella tra una trattazione marcatamente teorica e una marcatamente applicativa. Facile è abbracciare l'una o l'altra, meno facile trarre da ciascuna il meglio, il che è quanto tenteremo di fare, procedendo come segue:
in primo luogo i concetti teorici essenziali, i simboli e le espressioni che ci permetteranno di rendere agile il discorso, senza, però, tradurlo in pura astrazione;
poi le applicazioni, cioè i disegni, che saranno illustrati passo passo e che permetteranno di sperimentare i concetti teorici;
infine, ove sia utile e interessante, gli approfondimenti e i riferimenti storici.
In questo modo, ciascuno sarà libero di seguire la via che gli è più congeniale: leggendo tutto o solo la parte che gli è necessaria.
Ma c'è anche una decisione che riguarda il carattere della trattazione, che può riservare maggiori o minori riguardi alla dimostrazione logica delle regole enunciate. In generale il lettore di un libro di prospettiva è poco interessato alle dimostrazioni, perché si fida di chi scrive, evidentemente, e vuole andare al sodo.
Dal canto suo, chi scrive vuole dare prova delle leggi che illustra e applica nei suoi disegni, anche perché spesso gli elementi di novità stanno proprio nella via seguita per giungere alla regola, via che può essere più o meno ardua; e trovare una spiegazione più semplice e diretta non è meno meritorio d'avere trovato un nuovo teorema.
Perciò, quando sarà possibile, le dimostrazioni sono qui solo accennate, in modo che non interrompano il flusso della narrazione.
Diciamo narrazione, perché un testo che parte dalle forme più semplici, per arrivare a quelle più complesse, può essere letto anche come il racconto dello sviluppo storico dei concetti e delle applicazioni che presenta.
E se non fossimo ormai da vent'anni nel terzo millennio, ci sarebbe ancora un'ultima scelta da fare e cioè: prospettiva per i matematici o prospettiva per gli artisti?
Questa dicotomia ha caratterizzato la letteratura prospettica per secoli e ancora, in quello appena trascorso, si faceva una netta distinzione tra la \textit{proiezione centrale}, come metodo di rappresentazione appartenente ai domini della geometria proiettiva e della geometria descrittiva, e la \textit{prospettiva degli architetti}, come procedimento ripetitivo e forse anche inconsapevole, capace di generare una immagine prospettica. A ben vedere, si era ancora alla distinzione tra i due \textit{modi} di Piero della Francesca, ai quali abbiamo fatto cenno.
Dobbiamo ad alcuni docenti universitari di architettura la ricomposizione in un solo corpus disciplinare di questi due approcci diversi, astratto, il primo, quanto il secondo è banalmente applicativo e, in particolare, dobbiamo questo progresso a Orseolo Fasolo.
Fasolo insegnò la geometria descrittiva alla Sapienza, Università di Roma, dal 1966 al 1985.
Il suo insegnamento era caratterizzato dagli appunti, che forniva ai suoi studenti in semplici copie eliografiche.
Ogni lezione era presentata in forma prevalentemente grafica, su piccole tavole (31 per 21 cm).
I disegni erano accompagnati da brevi commenti di natura teorica e numeri che indicavano l'ordine da seguire nella lettura e nella esecuzione delle operazioni descritte.
Nel tempo in cui, in Italia, i manuali di geometria descrittiva erano per lo più composti dal testo, accompagnato da poche e inespressive illustrazioni, questa soluzione appariva molto innovativa ed era particolarmente apprezzata dagli studenti.
Queste nostre considerazioni sulla prospettiva, disegnate a mano, riprendono, dunque, una consolidata tradizione della scuola romana.
Vorremmo concludere questa premessa con una appassionata raccomandazione: nella prospettiva ci sono tre elementi che giocano il ruolo di protagonisti: il quadro, il punto di vista e il punto principale.
Il quadro è il supporto della prospettiva, cioè la parete dipinta o il foglio del disegno.
Il punto di vista, detto anche centro di proiezione, sta nello spazio, davanti al quadro, ed è il punto nel quale si colloca l'occhio di chi disegna, e di chi osserva.
Il punto principale sta invece sul quadro, nel piano stesso della prospettiva, e permette di ricostruire la posizione del punto di vista nello spazio.
Tutte le operazioni che si compiono quando si disegna una prospettiva, si servono di questi tre elementi. Queste operazioni, perciò, sono sia grafiche sia puramente mentali: quelle grafiche, evidentemente, si traducono in segni tracciati sul quadro, quelle mentali consistono nell'immaginare rette e piani che passano per il punto di vista e non si possono tracciare direttamente sul quadro, appunto perché stanno nello spazio come il punto di vista che ne costituisce la guida. Avere ben chiaro questo concetto permette di capire la prospettiva senza difficoltà.
Qui, come al termine di ogni premessa, si dovrebbe scrivere una data, che aiuti a ricollocare ciò che segue nel flusso del tempo. Ma le date hanno un grave difetto: stabiliscono una soglia, un prima e dopo, come se i contenuti di questo libro fossero fissati in questo istante.
Non è così, ovviamente. Per quanto ci riguarda, il nostro lavoro ha avuto inizio molti anni or sono, già dai tempi in cui, allievi della Scuola di Roma, assorbivamo i primi concetti; ma soprattutto, questo lavoro non finisce qui: esso è largamente incompiuto, come scoprirà ben presto chiunque voglia approfondirlo e svilupparlo negli anni a venire.
Gli autori ringraziano Antonio Di Clemente e Valeria Talarico, primi e attenti lettori di questo libro, per i loro preziosi suggerimenti.
Un particolare ringraziamento è dovuto a Gabriele Pierluisi, per aver concesso la riproduzione dei suoi dipinti.
\end{document}
Segue …